Anche a non aver mai letto il racconto “Il violino di Rotschild”, ciascuno può ben immaginare che il protagonista non è, e Cechov stesso lo chiarisce, il “famoso riccone” Rotschild. Né è la storia di un violino. Protagonista è un uomo che vive miseramente del lavoro di costruttore di bare. Jakov Ivànov, questo è il suo nome, è inoltre suonatore di violino in un’orchestra di ebrei. Suona per arrotondare le scarse entrate della sua attività principale, che è saltuaria, dal momento che i vecchi del villaggio in cui vive muoiono – dice Cechov – “così raramente che appariva addirittura come un dispetto”.
Jakov, detto anche Bronza dai “ragazzi di strada”, è particolarmente attento al denaro, vittima di una ossessione che lo spinge a calcolare quante perdite economiche è costretto a subire ad ogni mancata occasione di guadagno (nozze che vengono celebrate senza che lo invitino a suonare, giorni festivi in cui non è consentito lavorare, ammalati suoi compaesani che, andando a morire in altra città, danno ad altri da fabbricare la propria bara). Chiuso in questa preoccupazione, Bronza disprezza tutto ciò che lo circonda, tutto ciò che non gli torna utile in termini economici, ivi inclusi gli esseri umani. Così le bare dei bambini, che ci vuol poco a fabbricarle, sono da lui considerate come “stupidaggini” perché lavoretti da cui si ricava poco; così anche gli strumenti dell’orchestra, compreso il suo stesso violino, “rantolano o stridono”. Egli arriva ad odiare i compagni con cui suona, in particolare il già citato Rotschild, un ebreo che – dice Jakov – trasforma in lamento “anche le cose più allegre”.
A questo disprezzo sembra sfuggire la moglie Marfa, che vive assieme a lui nella “piccola casupola vecchia”. Marfa sfugge in virtù della funzione che svolge, assai simile a quella degli oggetti che arredano l’unica stanza di cui si compone la casa: “la stufa, un letto matrimoniale, le bare, il banco da lavoro e tutto quel che occorre alla vita quotidiana.”
Finché Marfa si regge in piedi, ora che malata riesce ancora barcollando a sbrigare le faccende di casa, Bronza non si cura di lei. Anche il suo invocarlo un giorno (“Jakov, muoio”) altro effetto non ha che costringerlo a voltarsi e guardarla, infastidito d’essere stato interrotto nel suo calcolare ancora una volta i mancati guadagni accumulati in un anno. Tuttavia, voltandosi scopre il viso della moglie “insolitamente sereno e gioioso”.
Serenità e gioia, non rientrando nei parametri con cui Jakov ha da sempre guardato fuori dal proprio io, lo turbano, lo spingono a scorgere in quell’espressione di Marfa la felicità d’andare via da quella casupola ma anche quella di andare via per sempre “da quelle bare, da Jakov…”. Bronza si sente spinto, “senza ragione” – dice Cechov -, a riflettere sul suo rapporto con la moglie e, ripensando al proprio comportamento, “raccapriccia” di quanto e come non abbia mai preso in considerazione le sia pur modeste esigenze di Marfa.
Sembrerebbe a questo punto che qualcosa debba cambiare nell’atteggiamento di Bronza. Ma non è possibile, ci dice Cechov, scrollarsi di dosso il proprio carattere, il proprio modo di pensare, anche se quella breve riflessione sembra averlo emotivamente colpito.
Pur prendendosi cura della moglie col condurla all’ospedale e farla visitare; pur tentando di reagire ai modi sbrigativi del dottore che, con mentalità molto simile a quella di Jakov, manda via i pazienti senza perdere troppo tempo, soprattutto se anziani e quindi al termine della loro esistenza, Bronza non modifica il proprio modo di agire. Giunto a casa, ha già calcolato che la moglie, con la sua morte, rischia di essergli causa di mancati guadagni, perché morirà in giorni in cui ci sarà molto lavoro da fare. Quindi le prende le misure e comincia a fabbricarle la bara per guadagnar tempo nei giorni successivi.
La morte di Marfa, che nei vicini suscita pietà e rispetto, non segna un mutare di atteggiamento in Jakov. Egli continua a considerare tutto sotto il profilo del vantaggio economico, adesso più che mai irraggiungibile. Il ricordo di una Marfa dall’espressione timida e premurosa, a cui egli non aveva mai prestato attenzione, lo spinge a guardare intorno la natura e a considerare la stoltezza degli uomini come una causa di grandi perdite. Ma Jakov questa volta si accorge che nella vita non vi sono solo perdite economiche. Vi sono anche quelle esistenziali, di una vita rovinata dall’odio e dalla malvagità che gli uomini nutrono l’uno verso l’altro. Solo dalla morte, che dura in eterno, non giungono perdite, dice Jakov (“niente mangiare, niente bere, niente pagar tasse e offendere la gente”). Anzi, soltanto dalla morte “non sarebbe venuto che un utile”. Jakov riflette che “questa considerazione è certamente corretta, però è amara ed offende: perché nel mondo c’è questo strano ordine, che la vita, che è data all’uomo una sola volta, debba passare senza utilità?”.
E’ possibile reagire a questo “strano ordine”? Jakov non è capace di portare avanti rivolte o ribellioni, ma si limita a sostenere, come Cechov, un piccolo ma significativo disordine.
Eppure da questo momento il cambiamento di Jakov appare repentino e improvviso.
E non è il presentimento della morte a operare questa trasformazione, perché “a Jakov infatti non dispiaceva di morire”. Sono la vista del violino e il pensiero che, con la sua morte, il violino sarebbe andato perduto, come vanno perdute tutte le cose di cui nessuno si cura.
Egli finalmente si comporta da uomo capace di affetto, anche nei confronti di Rotschild, l’ebreo, che non è più il “rognoso ebreo” con il quale “non si può neanche vivere” ma il “fratello” che ascolta attentamente la musica del violino suonato da Jakov. E a lui Jakov lascia in eredità il proprio strumento.
Questo mutamento radicale non è forse una grande rivoluzione, piuttosto che un piccolo disordine?
Ma Cechov non termina qui il racconto, non lo arresta alla morte di Jakov, avvenendo la quale, rivoluzione e disordine rimarrebbero eventi eccezionali e quindi molto probabilmente irreali, alla stregua degli avvenimenti chiave delle fiabe a lieto fine in cui la storia termina con i cattivi che si trasformano in buoni.
No, dice Cechov, l’uomo non cambia, non cambia il mondo. Jakov morendo ha passato il testimone a Rotschild che adesso suona il violino ricevuto in eredità. Ma gli altri, che lo vedono suonare, ascoltano la musica del violino, si commuovono sino alle lacrime, non riescono ad immaginare cosa sia accaduto, non riescono a pensare che lo scorbutico Jakov abbia potuto donare il suo violino a Rotschild. Essi, rimasti soggetti allo “strano ordine”, non possono che chiedersi: “di dove ha avuto Rotschild un così buon violino?L’ha comprato, l’ha rubato; o forse gli è stato dato in pegno?”. Perché è questo lo strano ordine: che la vita debba passare senza utilità
Una lettura profonda e esaustiva del racconto di Cechov, lettura che ci aiuta a comprendere la dimensione universale del racconto. Dovresti condividere più spesso con noi le tue letture, aiutandoci anche a riscoprire quei classici che spesso vengono soppiantati da letture effimere.