Mi capita spesso di oziare per ore in attesa della parola esatta, dell’espressione più azzeccata, della frase più accattivante. Non che mi dispiaccia, ma ho un senso di fastidio a dover farlo chiuso fra quattro mura. Per contratto, ovviamente.
È vero che una parete della mia stanza ha una grande vetrata che mi permette di guardare fuori, ma il fuori è una squallida piazza semideserta: di fronte, solo palazzi popolati da uffici, vite che si muovono nascoste da finestre cieche di vetri bruniti. Nei pomeriggi invernali poi le luci fredde delle stanze animano le facciate, ma la piazza resta deserta e nella penombra di fiochi lampioni.
All’ora di pranzo devo lasciare tutto e uscire, anche questo per contratto: nessuno ha il permesso di curiosare nelle stanze dei colleghi. Per motivi di sicurezza, e di trasparenza nei confronti del management, l’accesso ai computer non può essere protetto da password. Quindi all’ora di pranzo tutti dobbiamo abbandonare il palazzo. Ma non incontro mai nessuno, né sull’ascensore né all’ingresso principale. Solo il custode chiuso nella sua scatola di vetro, immobile e inaccessibile. Una piccola scatola nella scatola più grande dell’edificio da cui sto uscendo. Credo che ingressi e uscite siano stati scadenzati perché nessuno incontri qualcun altro. Come adesso, che sto scendendo le scale e vedo l’atrio completamente deserto. Con la coda dell’occhio però mi sembra scorgere un’ombra che si infila nell’ascensore. Il custode è rimasto impassibile. Non mi fermo a guardare perché non ho nulla da temere.
Nella piazza il sole disegna con i palazzi intorno ombre e luci. Le auto parcheggiate brillano nei loro diversi colori polverosi. In fondo c’è un bar con una grande vetrina. Una ragazza sta entrando. Di solito non frequento i bar. La ragazza si siede all’unico tavolino del locale, con lo sguardo nel vuoto e un lieve sorriso che le illumina il volto. Mi accosto al bancone e ordino una birra in lattina. Il cameriere mi porge anche un bicchiere.
- Come mai da queste parti, mi chiede.
- Intendi come mai sono entrato? – faccio un cenno del capo verso la ragazza – La conosci?
-Viene qui da alcuni giorni – dice, mentre continua a sciacquare bicchieri e tazzine con lo sguardo fisso al suo lavoro – mai vista prima.
Mi sembra di sentire in lui una certa ostilità.
Gli ordino un’altra birra e un tramezzino al prosciutto. Me li porge su un vassoio e mi dirigo verso il tavolino. La ragazza ha spinto il sedere sull’orlo della sedia, ha appoggiato la schiena all’indietro e ha steso le gambe divaricandole sotto il tavolino. Così allungata sta guardando una rivista di moda. Sembra insoddisfatta e sfoglia velocemente le pagine.
- Permetti?
Non mi guarda neppure ma ripiega la gamba che mi avrebbe impedito di sedermi e dice:
- Mi offri una birra?
Sembra una ragazzina in castigo. Il cameriere ha sentito. Si avvicina frettoloso, lascia sul tavolino la birra e attende che lo paghi. Conto lentamente le monete e le poso nel cavo della sua mano. Mentre il cameriere si allontana, la ragazza versa metà lattina nel bicchiere e l’accosta lentamente alle labbra. Mi chiede se il lavoro che faccio mi piace.
- Abbastanza, le dico, e tu?
- Come te, – e mi guarda negli occhi – ho lunghi momenti di pausa.
- Mi conosci?
- No, ma ti si legge in viso quello che fai. Ti va di non andare al lavoro oggi pomeriggio?
Ci alziamo. È alta quanto me e magra. I capelli in disordine le danno un’aria allegra. I pantaloni stretti e attillati la disegnano dalla vita in giù. La maglietta, troppo ampia, le cade senza forma dalle spalle mentre al petto si tende appena sui seni.
- Ho la macchina, mi dice precedendomi.
Siamo saliti sulle colline intorno alla città. Lei ha tirato fuori dal bagagliaio dell’auto una coperta a riquadri scozzesi e in una stretta radura assolata e ventosa ci siamo distesi l’uno accanto all’altra. Dall’ombra degli alberi intorno giungono i gridi dolci degli uccelli.
- Quando non ti vengono le parole, mi dice, come fai?
Mentre parla non mi guarda in viso, guarda in alto, nel buio dei rami. Il profumo dei suoi capelli mi inebria ma non mi muovo, non la guardo neppure.
- Non lo so come faccio, le rispondo. Prima o poi vengono e si mettono in ordine da sole.
- Ti lasciano del tempo per pensare?
- Si, tutto il tempo che voglio.
Questa volta gira il capo verso di me, con la bocca a sfiorarmi l’orecchio:
- La giornata sta per finire, sussurra sorridendo, e tu oggi non hai concluso nulla.
Rimango in silenzio come se non avessi sentito. Il vento ha smesso di soffiare e gli alberi nascondono il sole. Fa freddo adesso.
Ho tutto il tempo che voglio, ripeto tra me e la guardo. Si è messa in piedi, si è spogliata, è nuda. Il suo corpo si confonde con la luce del tramonto tra le foglie degli alberi. Accanto a me giacciono i suoi vestiti.
- Anche per amare? dice inginocchiandosi e posandomi una mano sul petto.
Ho ancora i miei abiti in dosso. Ne sento il fastidio. Vorrei spogliarmi anch’io e abbracciarla.
- È per questo che sei infelice?
La sua voce mi giunge come da lontano. Mi stropiccio le palpebre a lungo con il pollice e l’indice della mano sinistra e nel buio vedo il custode immobile dentro la sua scatola di vetro e l’ombra che entra furtiva nell’ascensore. Mi assale un senso di angoscia.
Immetamorfosi di un copywriter
Scritto da Marcello Comitini il 27 marzo 2013 in Prose