Si udiva, si sarebbe udita la chitarra se il suo suono non schiudesse sin dal primo istante il modo giusto di ascoltare? Era la sua prima virtù indiscernibile sul momento. Chissà se i cultori di pedagogia si sono mai resi conto che è la Musica a insegnare senza parole il modo giusto di ascoltare. E che quando solo della parola si tratta, succede lo stesso, che è la musica, che può essere una forma di silenzio, a sostenere la parola nel suo elemento e nel suo modo giusto, né più alta né più bassa – preferibilmente sempre un po’ bassa. Perché la musica è, a partire da un momento iniziale, ciò che si ode, ciò che si deve udire, e senza di essa la parola sola cade in basso, condensandosi sulla via di farsi pietra, o si innalza volatilizzandosi, tradendo le attese. Grazie alla musica la parola non delude le attese; privata di essa, sconfessa se stessa, e tanto più quanto più è vera. La musica è garanzia dell’assenza di tradimento, non conosce le “buone intenzioni”, e un suo solo venir meno nella voce (che dice) svela l’inganno o denuncia l’inadempimento della verità. La musica adempie, si adempie, e noi ci adempiamo ascoltandola. Colui che la reca – che è, chi è? Un essere remoto, una pura attualità del sempre. E appare impensabile che qualche volta se ne vada, che qualche volta non ci sia stato. Tornerà.
Tornerà sempre colui che fa la musica di quest’istante. Tornerà questa musica che si approssima di più all’origine, al principio quando rivela insieme l’istante presente. Dura un istante tutta. Dura un istante tutta la musica. Un istante di eternità, come il morire, come il nascere, come l’amare.
Tanto più se la musica è di chitarra; ma che cos’è che era veramente quel palpitare solitario, quell’onda dell’essere e della vita? non sarà essa per caso, lo strumento musicale allo stato puro, intero e solo, unico?
Strumento unico della musica tutta. Una sola nota potrebbe bastargli. Inconfondibile. Univa i contrari, l’essere e il non essere del sentimento stesso. Era lamento e non lo era. Celebrazione senza traccia di trionfo. Unisce la musica i contrari o è già lì che respira prima che compaiono? O consiste il suo adempimento nel puro atto di ricondurci, in quel suo istante, all’origine del tempo, ora che esso ha fatto tanta strada, ora come allora, dopo tanto? E di darci così la legge del giusto sentire, liberandoci da quella nostalgia che i faciloni del vivere ritengono che sia il dono della musica e soprattutto la sua voluttuosità. Dolore sì, può essercene, e più che mai nella chitarra, che chissà non sia, di tutti gli strumenti, quello da esso prediletto. Il dolore però non chiede di essere fissato, concentrato; il dolore chiede di finire col darsi, senza essere notato, dopo aver rampollato pullulando, come uno sterminato nugolo di formiche. Il dolore, che nella chitarra schiva la sofferenza, protetto dall’Angelo che accorda minuziosamente il sentimento e lo orienta passo passo verso ciò che non ha fine, in alto.
La musica custodisce il segreto della giustezza del sentire, le cifre del calcolo infinitesimale del soffrire. E questo si realizza al massimo grado, almeno tra gli strumenti occidentali, nella chitarra, così intima, che suona dal di dentro, dall’antro del cuore del mondo. È per questo che quelli che suonandola incespicano per la fretta, la fanno piangere, mentre quelli che sanno trarne profitto la straziano. Ed essa dice loro “lasciatemi sola”, senza che lo capiscano. Perché è anche un fatto che essa si sia concessa tutta sola a qualcuno il quale, senza fretta e quasi senza toccarla, sfiorandola appena, per tutta la vita vada sgranando, sul filo di una certa cadenza, il suo segreto quello che tanto più si occulta quanto più si rivela. La notte del patimento allora si rischiara, lo sciame della sofferenza si aduna. Il suono è uno solo. L’Angelo ha strappato via le spine ed è lui stesso a farsi sentire nel mentre che svanisce.
(Maria Zambrano, Chiari del bosco, Ed. Bruno Mondadori, 2004)