Ti chiudi a riccio – mi dicono
A volte – e chissà quante volte l’ho detto, rispondendo – non ho nulla dentro il cervello.
Il vuoto.
Che mi fa apparire come se mi fossi chiuso a riccio, a riccio di mare, nero e lucido che muove i suoi aculei come fossero mille tentacoli rigidi in cerca della preda o mille braccia tese ad allontanare chi mi vorrebbe stare accanto.
In fondo penso che ci sono momenti in cui il pescivendolo sotto casa è più ricco di pensieri di me: gli sono arrivate le triglie fresche che profumano di mare, il tonno che ha versato sangue prima di morire, il polipo che ha cercato disperatamente una via di fuga con il terrore negli occhi e ancora brancola cieco dentro la nassa.
(non ci sono pescivendoli sotto casa, anzi non c’è nulla sotto casa. C’era prima di lasciare la Sicilia, c’era e stava sotto il balcone di quella casa nell’infanzia e nella giovinezza).
Come vedi – avrei dovuto rispondere – oggi sogno il mare, il mare vivo di vita della Sicilia.
Sono cose di cui posso fare a meno – mi dico -. Vivo ugualmente e benissimo, ma tornano nel cuore a tradimento. E allora mi viene da piangere mentre sento che il sole va tramontando e si porta appresso tutte le speranze. Ne rimane una: quella di vivere il meno peggio possibile. Che poi è quella che davvero non riesco a realizzare.
Sono gli occhi della gioventù, quando il cuore ancora puro abbraccia tutto quello che gli sta intorno e lo riveste di dignità e bellezza.
Sono quelle emozioni vissute e cucite addosso in quel periodo che tornano a fare capolino quando abbiamo bisogno di magia.
Ma la magia è tale solo se non diventa norma.
E ci sorprende ogni volta perchè per magia ritornano le emozioni che credavamo dimenticate.
Imprinting….siamo stati caricati con una molla di bellezza. E meno male.
Questa sera ho fatto un giretto nel web e ho trovato un interessante articoletto, che si presta decisamente a leggere l’imprinting a cui accennavo nel mio commento alla tua poesia. Mi piace lasciartelo qui, perchè è un tassello di riflessione e apprendimento in più. Eccolo:
Il poeta inglese Thomas Traherne descrisse con grande efficacia la sua capacità di trovare la bellezza ovunque. All’inizio, da bambino, il mondo era per lui uno specchio di infinita bellezza. Traherne racconta la storia del re egiziano Amasis, che mandò a chiedere ai saggi della Grecia qual è la cosa più bella del mondo, e ricevette come risposta: «Il mondo, perché se lo vedessimo una volta sola ci riempirebbe di meraviglia, mentre avendoci a che fare ogni giorno ci siamo abituati e siamo diventati incapaci di vederne lo splendore». Traherne si ricorda di come percepiva le cose quando era bambino: in maniera fresca e pura, e quindi estatica. La polvere e le pietre della strada erano preziose come l’oro, vedere gli alberi gli dava un tuffo al cuore, gli uomini erano angeli, i bambini che giocavano per strada dei gioielli: «L’Eternità era manifesta alla luce del giorno». Poi tutto a poco a poco finisce, perché lui è costretto a imparare, crescendo, «gli sporchi trucchi del mondo». La sua sensibilità diminuisce, la gamma estetica si restringe, ma non abbastanza da impedire un vivido ricordo.